Era il 13 giugno del 1977. Un lunedì, verso le due e mezza. Mio padre mi stava accompagnando al conservatorio di Cuneo, dove studiavo viola: avevo l’ultima lezione di strumento complementare, pianoforte, e di lì a un paio di settimane avrei sostenuto l’esame. C’era appena stato un temporale. L’asfalto era bagnato, il cielo ancora grigio di nuvole. Poco fuori Saluzzo, abbiamo superato una macchina che andava pianissimo: una 127 bordeaux – me lo ricordo perfettamente –, con una signora al volante e una bimba vicino. In quello stesso momento, la signora, forse senza guardare nello specchietto, o magari ingannata dal punto cieco, ha svoltato a sinistra. Mio papà ha provato ad evitarla, ci ha provato. Il colpo, la strada che impazzisce, un cartello preso in pieno. – Tieniti, – mi ha urlato mio padre mentre ormai cappottavamo. – Le mani! In un attimo ci siamo ritrovati con la macchina nel prato, là sotto. Osservando un paesaggio di aratri e attrezzi agricoli come se non fossi io il protagonista, ho pensato di non essermi fatto niente. Stavo bene, non provavo dolore, mi sembrava tutto come sempre. Solo, un po’ più incidentato. Ma poi ho abbassato lo sguardo, e l’ho vista: lei, la mia mano sinistra, quella che fino al giorno prima correva sulla tastiera della viola. – Non posso più suonare! – ha gridato una voce. Quella voce ero io. All’epoca ero soltanto un ragazzino di diciassette anni, e non sapevo che un giorno ce l’avrei fatta. Certo, ci sarebbe voluto tempo, tanto tempo: tre interventi alla mano, un lunghissimo viaggio nel tunnel del dolore, la lotta contro il parere dei medici, degli insegnanti, dei parenti. – Scordatelo, Claudio, non è possibile, – mi ripetevano tutti. – Non nelle tue condizioni. Sì, perché, per poter suonare di nuovo, avrei dovuto ricominciare da zero. Anzi, da meno dieci: invertire le corde del violino, imparare a tenere l’archetto con la sinistra, far correre la destra sulla tastiera. Come un mancino, io che mancino non ero. A lungo ho covato quella speranza da folle, senza avere la determinazione, o forse l’incoscienza, per realizzarla. Ma un pomeriggio, quando frequentavo l’università ed erano passati più di quattro anni dall’incidente, mi sono deciso. Ho invertito le corde della viola e, come risucchiato dallo specchio, ho provato a suonare al contrario. Ci ho provato e ho fallito. Eppure non mi sono lasciato sopraffare dallo sconforto, no: la mia battaglia con il destino era ingaggiata, e io ero deciso a vincerla. Così, quell’inciampo iniziale si è trasformato in un balzo in avanti. Un balzo che mi ha permesso di capire una cosa fondamentale: per raggiungere il risultato, dovevo crearmi un metodo. Ma potevo contare soltanto su me stesso: nessun insegnante, nessun musicista mi avrebbe rivelato il segreto per l’impossibile. Son seguiti mesi di studio e fatica, di certosina traduzione dei movimenti, di superamento dei limiti che il destino mi aveva imposto: è stato come sprofondare nel caveau di una banca e aprire cassetta di sicurezza dopo cassetta, per recuperare ciò che là era nascosto, non perduto. Ma alla fine ce l’ho fatta. E una sera ho trovato il coraggio di andare dal mio vecchio maestro e suonare, di fronte alla sua incredulità, due studi. Dieci minuti appena, che a me son sembrati duecento chilometri in bici. Lui, per un po’, è rimasto in silenzio. Poi mi ha guardato dritto negli occhi e ha detto: – Quando vuoi cominciare, io sono qui. È stato il giorno più bello della mia vita: la fine di un viaggio, e l’inizio di un altro. Quello che mi ha portato a diventare il musicista che sono oggi.